giovedì 21 marzo 2013

No Man's Land




Questa sera un film di qualche anno fa, precisamente del 2001, che ho guardato per cercare di capire qualcosa di più su questo popolo che ha una storia così densa e intricata. Il film è ambientato nel 1993 nel corso della guerra serbo bosniaca.

Un soldato bosniaco ed uno serbo si ritrovano bloccati in una trincea abbandonata nella terra di nessuno, la No Man’s Land del titolo, una striscia di territorio che non è controllata da nessuna delle due fazioni. Assieme a loro c’è un altro soldato bosniaco sotto al quale all’inizio, pensando fosse morto, i serbi avevano sistemato una mina balzante destinata ad esplodere appena il suo corpo sarebbe stato sollevato. Non sapendo come risolvere la situazione entrambe le fazioni chiedono l’intervento dell’Unprofor che però non potrebbe entrare in azione in quanto la sua missione è solo ed unicamente quella di portare aiuti umanitari restando neutrale. Si mobilitano anche i giornalisti che hanno saputo della vicenda e cercano con ogni mezzo lo scoop su un episodio tragico della guerra.

Tanovic ci racconta la vicenda come una tragica commedia. I due soldati sono degli antieroi, persone comuni che si ritrovano quasi per caso nel mezzo di una guerra: il soldato bosniaco indossa una maglietta dei Rolling Stones e le All Star, il soldato serbo è un novellino appena arrivato, non conoscono le tecniche militari, e quasi quasi diventano amici quando scoprono di avere nella vita civile anche delle conoscenze in comune. Il loro unico desiderio è di salvare la pelle e di uscire prima possibile da quell’assurda situazione.

Molto più tagliente la critica che viene mossa ai soldati dell’UNPROFOR, che se ne stanno tutto il giorno ad oziare in cima ad una torretta in mezzo alle colline senza avere la possibilità di portare aiuti concreti che vadano oltre alla distribuzione di qualche razione di cibo. Il fatto che il sergente Marchand, stanco di stare a guardare, decida di intervenire, provoca la reazione infastidita  del suo superiore che è costretto ad interrompere il suo soggiorno di osservatore in terra straniera per andare a ristabilire la neutralità. Nonostante il volonteroso intervento del sergente francese l'Organizzazione è incapace di risolvere efficacemente un problema tutto sommato non troppo complicato.

Neanche i giornalisti fanno una bella figura, pronti a tutto per portare a casa lo scoop, senza farsi alcuno scrupolo neanche di fronte al lato umano della tragedia e con l’unico scopo di raccontare per primi la storia e renderla sensazionale e melodrammatica; rivelandoci anche tutto il carico di cinismo e spregiudicatezza che noi spettatori di solito ignoriamo, su storie che sarebbero tragiche già da sole.

Sono tanti gli spunti comici di questo film, situazioni e scene che ci fanno sorridere, come l’impossibile comunicazione con i soldati serbi e bosniaci che assomigliano ad un plotone di Sturmtruppen e non parlano altra lingua se non la loro; come la rigorosa puntualità dell’artificiere tedesco chiamato per disinnescare la mina che arriva all’appuntamento alle 15.30 in punto neanche un secondo più tardi; o come il gran capo della missione ONU che è costretto ad abbandonare la partita a scacchi con la bella segretaria per raggiungere il campo  sempre accompagnato dalla bella segretaria coi tacchi alti nel campo minato.

Tanovic, che è un regista bosniaco, non si schiera né con i suoi connazionali né con gli avversari. La critica piuttosto  viene rivolta all’Organizzazione delle Nazioni Unite, che si rendono ridicole nella la pretesa di restare neutrali. Neutralità che come ben sappiamo nel corso di quella tragica guerra ha realmente consentito che venissero compiuti degli atroci massacri. Tristemente però, come dice il sergente Marchand, in una guerra anche essere neutrali significa prendere una posizione.


No Man’s Land, Bosnia ed Erzegovina 2001
Di Danis Tanovic, con Branko Duric, Rene Bitorajac, Filip Šovagović
Durata 98’

sabato 9 marzo 2013

Educazione Siberiana

Avrei potuto scrivere parte di questo commento anche senza andare a vedere Educazione Siberiana, avendo sentito varie interviste a Salvatores che non lasciavano intuire grandi novità rispetto al libro che avevo già letto. Viste le premesse non morivo esattamente dalla voglia di vederlo, ma un po’ il fatto che il libro mi era piaciuto molto, un po’ immaginavo che fosse un film comunque ben fatto, un po’ John Malkovich … alla fine ci sono andata.

Dico subito che il libro mi è piaciuto molto di più. Tuttavia sul fenomeno Nicolaj Lilin, l’autore,  ho parecchi dubbi e con alcuni amici è in corso un dibattito piuttosto vivace. Non si capisce in sostanza se “ci è o ci fa”. Se in Educazione Siberiana, che sembrava fosse la sua vera storia, emergeva un protagonista  molto  duro e affascinante, nel secondo e  terzo romanzo in cui racconta rispettivamente la partecipazione alla guerra in Cecenia e il ritorno a casa con le conseguenti difficoltà di riadattamento, la credibilità dell’elemento autobiografico comincia a traballare. L'immagine di Lilin che ora vive stabilmente in Italia, parla perfettamente la nostra lingua e scrive questi bei romanzi è piuttosto incongruente con la sua vita precedente di criminale siberiano tatuatore soldato cecchino guardia del corpo e chi più ne ha più ne metta. Anche se comunque lui stesso ha ammesso che le esperienze di cui narra sono in parte vissute in prima persona ma in parte viste, sentite, tramandate.

Ma torniamo al film, che dal libro prende la storia dell’amicizia tra  Kolima e Gagarin. Siamo a Fiume Basso in Transnistria, dove hanno messo radici i criminali deportati dalla Siberia. Oltre al gruppo dei siberiani altre etnie si spartiscono e controllano il territorio in una specie di ghetto a cielo aperto. Tra i siberiani vige un codice d’onore che potremmo paragonare a quello della mafia dell’ottocento. Si onorano la terra e le armi (come in molte organizzazioni criminali l’elemento religioso è molto forte), il denaro è impuro e non deve entrare nelle case, si possono uccidere i poliziotti, i banchieri, i corrotti, si deve rispettare la gerarchia. Molto forte è l’ossimoro “criminali onesti” come loro stessi si definiscono: anche i protagonisti del film, sebbene nella vita siano dei ladri e assassini e criminali, non hanno le facce da delinquenti. Gagarin sembra Kurt Cobain e Kolima ha il viso pulito. 
Nonno Kuzja (ancora una volta un magnetico John Malkovich) è il nonno di Kolima nonché il membro più influente della comunità. I tatuaggi, di cui gli uomini sono ricoperti, raccontano le loro storie personali che solo gli altri siberiani sono in grado di leggere e interpretare. L’onore e la fedeltà alla comunità sono i principi fondamentali. Come racconta nonno Kuzja al piccolo Kolima nella metafora del lupo che si vende agli umani per avere il cibo garantito, la dignità una volta persa non si può più recuperare.

Salvatores racconta la storia dell’amicizia tra Kolima e Gagarin frazionando  e mescolando tre fasi della vita dei ragazzi che corrispondono a tre periodi  ben precisi della loro vita,  e sottolineandone  le differenze attraverso un diverso uso della luce e della fotografia. Le scene in cui Kolima e Gagarin sono bambini e il nonno è un personaggio mitico, potente e giusto che trasmette loro i principi dell’educazione siberiana sono caratterizzate da una luce calda e colori dorati. Nella seconda fase Kolima e Gagarin sono cresciuti e fanno le loro prime esperienze da adulti nella comunità. L’atmosfera è molto più dura e i colori sono più freddi. Infine il giorno d’oggi  in cui assistiamo anche alla soluzione della vicenda: siamo in piena guerra cecena, le tinte sono ancora più nette ed i chiaroscuri più delineati.

E’ importante anche sottolineare che l’azione abbraccia un periodo storico che comprende la fine della guerra fredda  (con un inserto delle immagini reali della caduta del muro di Berlino), la conseguente dissoluzione della Russia e il progressivo ingresso del capitalismo che viene vissuto dai criminali siberiani come una minaccia all’onore e ai valori della comunità (sarà infatti l’impuro denaro a minacciare l’onore degli uomini).  La scena più emozionante secondo me è proprio quella in cui i due amici assieme a Xenia si concedono il lusso di un giro sulla giostra, esperienza per noi quasi banale, e per la prima volta ascoltano della musica occidentale! Con Absolute Beginners come sottofondo impazziscono di gioia come forse mai prima nella vita, e per un attimo sembrano quasi dei ragazzi normali che vivono una vita normale.

Le aspettative su questo film non sono andate deluse anche perché non ne avevo molte. Consiglio comunque prima la lettura del libro che è molto più ricco e affascinante. Dopo averlo letto comunque il film di Salvatores resta un ottimo esercizio di stile.


Educazione Siberiana, Italia 2013
Di Gabriele Salvatores con John Malkovich, Arnas Fedaravicius, Vilius Tumalavicius, Peter Stormare,
Durata 110’

lunedì 4 marzo 2013

Apres Mai - Qualcosa nell'aria



Finalmente anche a Trieste è in programmazione – per pochissimi giorni naturalmente -  Après Mai, di cui tanto mi hanno parlato gli amici che l’hanno visto a Venezia l'anno scorso. Lo aspettavo e non speravo di riuscire a vederlo al cinema, quindi l’ho subito messo al primo posto delle cose da fare durante il weekend. Lo dico subito, non ne sono stata travolta. Tuttavia credo che sia un lavoro  molto interessante di cui vale la pena parlare un po’.

Après Mai è stato presentato al mercato internazionale con il titolo Something in the Air, tradotto quindi in italiano come Qualcosa nell’aria. E’ il titolo di una canzone prodotta da Pete Townshend degli Who.

Siamo in Francia alla periferia di Parigi. Il sessantotto è appena dietro l’angolo ed i suoi echi sono ancora molto vivi. Gilles ed in suoi compagni frequentano il liceo e sono molto impegnati politicamente nei collettivi. Il film è marcatamente autobiografico, anche Olivier Assayas era stato un giovane studente parigino che aveva vissuto molto intensamente il Sessantotto.


Il film non ha una vera e propria trama ma segue un periodo della vita di Gilles e dei suoi compagni di avventure raccontandoci le loro azioni politiche, le ambizioni artistiche e le esperienze sentimentali; si potrebbe definire quasi un romanzo di formazione.

Ci sono sicuramente tutti i clichè che caratterizzano quel momento storico, talvolta presentati nell’accezione più estrema: la lotta intransigente, la stampa libera, la sigaretta sempre in bocca, i figli dei fiori, l’LSD, le ragazze pallide e malinconiche, alle spalle le famiglie borghesi contro cui ci si ribella; la controcultura, i film impegnati sui popoli andini, i corsi di danza tibetana, i viaggi in oriente, il volantinaggio.

Ma la forza del film, almeno per quello che ha colpito me, è che racconta delle passioni di questi ragazzi. Tra l’altro, piccolo inciso, a parte il padre di Gilles i genitori sono invisibili, anche se i ritrovi e le feste si svolgono nelle loro belle case e ci sono ampi spazi per dipingere le tele astratte. Ma appunto dicevo delle passioni, del coinvolgimento talvolta anche esagerato e poco disponibile al dialogo con la parte opposta, delle utopie e degli ideali per i quali lottare, delle conquiste. Dei ragazzi che sapevano chi era Marx, che si riunivano in assemblee, che dibattevano.
Mi sono chiesta chissà dove sono finiti quei ragazzi? Gilles, che voleva diventare cineasta alla fine capisce che è il momento di crescere e va a Londra a seguire la realizzazione di un film molto poco d’essai, grazie probabilmente all’interessamento del padre.  Credo come la gran parte degli allora giovani che hanno partecipato al Sessantotto e poi hanno vissuto delle vite molto più convenzionali.

Quanto bisogno ci sarebbe di un po’ di passione in un momento storico come il nostro, di approfondire, di farsi coinvolgere, di credere ed impegnarsi e di conquistare. Avremmo bisogno di un po’ della coscienza e della passione che hanno i ragazzi di Après Mai per riuscire a cambiare quello che non funziona in questo paese e a cominciare di nuovo a crescere.

E comunque, lasciatemelo dire, in quel periodo la musica era fantastica!


Apres Mai, Francia 2012

Di Olivier Assayas, con Clément Métayer, Lola Créton, Mathias Renou

Durata 122’