lunedì 11 aprile 2016

Costellazione Familiare

Alla fine eccomi a qui a raccontare di questo libro dal quale tento di  fuggire ma che non mi lascia andare. Più cerco di allontanarlo, più mi richiama.

Un giorno tornando a casa dal lavoro stavo ascoltando una trasmissione radiofonica in cui si parlava di libri. “Oggi parliamo con Rosa Matteucci del suo nuovo romanzo Costellazione Familiare”. Ho fatto un balzo e ho alzato il volume. Sì perché per me il tema delle costellazioni familiari è stato decisivo negli ultimi anni: le ho praticate, studiate, mi sono lasciata indagare; infine ultimamente ho deciso di accantonarle per un po’ e dedicarmi ad altro. L’autrice spiegava che la genesi del romanzo era appunto un lavoro di gruppo basato sul metodo delle costellazioni, al quale lei stessa si era trovata a partecipare in modo del tutto casuale. L’intervista poi proseguiva parlando del suo amore per i cani che sembrava essere il vero tema della narrazione. Alla fine della trasmissione ho accantonato il pensiero, volontariamente.  
 
Il giorno seguente nella sezione cultura del quotidiano locale, mi imbatto di nuovo nello stesso libro: c’è un articolo di presentazione, seguito dall’annuncio che quel pomeriggio l’autrice avrebbe incontrato il pubblico nella tal libreria alla tal ora.  Guarda caso, proprio a quell’ora sarei stata nei paraggi per una commissione. E va bene, se ci riesco andrò a sentire, ma  solo dieci minuti...

Ovviamente ci riesco. Inizia l’incontro. Già non mi è simpatica questa Rosa Matteucci. Ha l’aria un po’ annoiata, insofferente. Sembra quasi che le dia fastidio stare qui a raccontarci la sua storia, tra un po’ me ne vado. E invece rimango. Per tutto il tempo sono pronta a svignarmela  alla prima occasione, e invece resto incollata alla sedia quasi fino alla fine. Perché le cose di cui parla in fondo le conosco. Soprattutto  le cose che lascia solo intravvedere, una parte più emotiva, delicata,  che forse fa ancora fatica ad essere affrontata pubblicamente, però io credo di aver riconosciuto il tema profondo, intimo. E non solo io, molta gente annuisce partecipe, forse riconoscendosi.

Andandomene incontro un amico, anche lui venuto ad ascoltare la presentazione. “Ma tu lo compri il libro? – Io no, no, ne ho già una pila da leggere sul comodino, poi mi viene l’ansia, forse più in là. – Si si anch’io forse più in là”. E invece una volta alla cassa, furtivamente, neanche stessi rubando, ne acquisto una copia e la infilo in borsa, stando bene attenta a non farmi vedere.

Il libro resta lì a guardarmi sul comodino per qualche giorno. Mi aspetta. E va bene, leggiamolo. Uffa però che modo esagerato di scrivere.  Ma che bisogno c’è di metterci tutte queste parole desuete, non potrebbe usare uno stile più leggero, più scorrevole? E poi che sfoggio di cultura gratuito, quanto mi urta questo snobismo.
Però  mi fa troppo ridere. Per la prima volta un argomento che avevo sempre vissuto con una serietà quasi reverenziale viene affrontato con ironia. Io non avrei mai osato. Mi sento più leggera.

E’ una maschera, credo, questa della dissacrazione; crea la distanza necessaria per affrontare il rapporto con una mamma algida e inaccessibile, dispotica in particolare con questa figlia, che a sua volta si lascia tiranneggiare, nell’ attesa vana e già disillusa di un gesto di affetto che non arriverà.  E proprio nelle parti in cui la tenerezza riesce a filtrare per qualche istante, il racconto arriva dritto al cuore, nei passaggi in cui dietro alla maschera dell’ironia distaccata si riesce a percepire l’amore per questa madre, il dolore e la paura all’idea di perderla, di perdere anche il tiranno che è stato in qualche modo il leit motiv di una vita, la ragione di una vita.

E insomma ho riso, ho pianto, e soprattutto sono incredula per come io non riesca a liberarmi da questo libro. Ho scoperto che il quotidiano locale le concede uno spazio settimanale nella sezione cultura, che ovviamente leggo, sempre con scetticismo, e sempre mi piace.

Poi ieri in centro ho incontrato un’amica che non vedevo da tempo, e che mi ha detto “Sai, ti ho pensata! Perché mi hanno regalato un libro che si chiama Costellazione Familiare, e mi ricordo che tu me ne avevi parlato …”  

E va bene mi arrendo, mi sta proprio chiamando, non mi resta che scriverne. Hai vinto, Rosa Matteucci. Per ora.


mercoledì 30 marzo 2016

Alabama Monroe

Chiunque avesse intenzione di vedere Alabama Monroe lo sappia da subito: è un film triste, doloroso e finisce male.
Non ho svelato alcun segreto, perché fin dalla prima scena sappiamo che c’è una bambina malata di un male molto difficile da curare, e vicino a lei i genitori che soffrono ma resistono uniti, sostenendosi a vicenda per dare forza alla loro figlia. 

Siamo in Belgio, ma potremmo essere in qualsiasi altro luogo dell’Occidente, preferibilmente una zona rurale degli Stati Uniti: infatti Didier, il protagonista maschile, nutre un amore sfrenato per la cultura americana. Abita in una roulotte nella sua fattoria dove alleva cavalli e galline, guida un pick up rosso in perfetto stile folk, ha la barba lunga e l’aspetto rustico, sembra provenire da un’altra epoca e suona il banjo in un gruppo locale di bluegrass, un genere musicale affine al country. Elise invece si presenta molto diversa da lui, più aggressiva,  con tatuaggi sparsi su gran parte del corpo e un atteggiamento che fa subito temere chi tra i due avrà la peggio. Invece è colpo di fulmine e poi presto amore, e le diversità  scompaiono. Ci sono complicità, sesso, tenerezza, intesa. Inaspettatamente Elise resta incinta, Didier sulle prime reagisce male ma subito dopo accetta l’idea di diventare padre e inizia a sistemare la casa dove lui, Elise e la piccola Marybelle vivranno. Tutto sembra perfetto e il resto del mondo quasi non esiste, eccezion fatta per le serate con la band alla quale anche Elise si è unita come cantante.

Ma come già sappiamo la felicità non durerà a lungo, e la malattia e poi la morte della bambina saranno un dolore troppo forte per i due genitori che non riusciranno più a ritrovare la pace, né sapranno trarre giovamento dalla forza del loro amore. Soprattutto Elise non sarà in grado di superare il dolore e deciderà di andarsene: dalla casa, dal suo uomo, dalla sua stessa identità cambiando nome e diventando Alabama – mentre a Didier darà il nome Monroe, come il più famoso suonatore di bluegrass - ,  e alla fine cercherà di andarsene anche dalla vita e da un dolore insopportabile. 

Passato e presente si alternano per tutta la durata del film, da un lato informandoci subito sui destini tragici dei protagonisti, dall’altro consolandoci con il racconto dell’incontro tra Didier ed Elise e del loro amore fresco e forte.

Ho trovato eccellente l’interpretazione dei due attori a me finora sconosciuti, probabilmente più noti al pubblico belga, che spero di rivedere in futuro in qualche altra pellicola.

Alabama Monroe era candidato all’Oscar come miglior film straniero che è stato poi vinto dalla Grande Bellezza. Senz’alcun dubbio tra i due ho preferito questo di cui vi ho appena raccontato. 

 
Alabama Monroe, Belgio 2012
Di Felix Van Groeningen, con Johan Heldenbergh, Veerle Baetens
Durata 111’

martedì 1 ottobre 2013

Il tango della vecchia guardia







Che libro, che libro! Ci voleva una storia così appassionata per farmi tornare al mio blog dopo una lunga assenza! Il tango della vecchia guardia è il titolo del libro di Arturo Perez-Reverte, tradotto in italiano da Bruno Arpaia e pubblicato da Rizzoli.

La storia di un uomo e una donna,  Max e Mecha. Max è un ballerino professionale che sulle navi balla con le donne ricche. Ma è molto di più: è gagà, seduttore, canaglia, uomo nato nei bassifondi che non ha una patria e non può tornare a casa, astuto truffatore e ladro. Mecha è la ricca e bellissima moglie di un famoso compositore, poi madre e manager di un campione di scacchi.

I due si incontrano per tre volte nella loro vita: su un transatlantico nel 1928, a Nizza nel 1937 e a Sorrento nel 1966. Ogni incontro sarà passione, conflitto e approfondimento della loro relazione. Ogni incontro li vedrà destinati a separarsi. Di quello che succede in mezzo non sappiamo molto. Storia d’amore, sesso e passione, ma anche di spionaggio, quartieri malfamati e case di lusso, scacchi, prostitute. Tutto accompagnato dalle note del tango.

Il racconto è diviso in tre momenti temporali che corrispondono agli incontri tra Max e Mecha, mescolati tra loro con continui salti da un’epoca all’altra.  La scrittura di Perez-Reverte è intensa e ricca di ardente passione, le sue parole trasudano odori. Altrove sono pagine che si dilungano lente nella descrizione dei particolari perché, come ha detto l’autore stesso, era necessario fornire al lettore tutti i dettagli necessari affinché  riconoscesse immediatamente il periodo in cui si stanno svolgendo gli eventi; quindi minuziose descrizioni dei luoghi, delle canzoni, degli abiti e degli oggetti per condurre immediatamente il lettore nel luogo e nel tempo dell’azione.

Si coglie tra le righe la grande attenzione e la curiosità dell’autore per il mondo delle donne, anzi delle femmine, che considera  esseri superiori agli uomini. Max può essere affascinante e furbo, ma Mecha è una donna profondamente consapevole del suo essere femmina, solida ma a sorpresa con dei misteriosi lati oscuri dai quali Max (e l’autore stesso direi) si sente profondamente attratto.

L’ autore ha raccontato di aver iniziato a scrivere questa storia quando aveva 20 anni, ma di averla poi abbandonata e potuta riprendere solo dopo aver vissuto, dopo essersi guadagnato i capelli bianchi e le rughe dell’esperienza sulla pelle.

L’ho ascoltato durante un incontro a Pordenonelegge, mi ha divertita e coinvolta, anche se questo genere di autori così scaltri nel promuovere il loro prodotto, così  elegantemente simpatici, così abili venditori di se stessi e del loro prodotto normalmente non risvegliano la mia curiosità. Alla fine del romanzo c’è un lungo capitolo in cui lo scrittore riporta alcune pagine di appunti presi durante la stesura, con tanto di foto dei luoghi che vedono protagonisti Max e Mecha. Le stesse pagine sono state twittate durante la stesura del romanzo per alimentare la curiosità dei lettori. Buona operazione di marketing. Per fortuna ho ceduto alla tentazione di leggerlo.

Un’ultima curiosità: mentre aspettavo in fila che iniziasse l’incontro con l’autore ho conosciuto una coppia di ragazzi in procinto di trasferirsi in Australia che avevano con sé una borsa piena di libri di Perez-Reverte da regalare, perché non avrebbero potuto portarli con sé. Uno di questi libri è sul mio comodino e aspetta solo di essere letto. Già non vedo l’ora.

Se ne avrete voglia, a voi il piacere appassionarvi al Tango della vecchia guardia.

domenica 14 luglio 2013

Lorenzo, questa volta sono delusa


Avevo tanta, tantissima voglia di fare festa e il concerto di Lorenzo è un’ottima occasione per fare festa.
Avevo voglia di assistere ad un concerto in uno stadio, di stare sul prato in mezzo alla gente, di percepire l’energia della folla danzante accanto a me e di condividerla.
Avevo voglia di identificarmi completamente con il pensiero positivo, di ballare e cantare senza pormi nessun limite, fino a quando sarebbe durata e con chiunque avessi avuto accanto.

Le recensioni che avevo letto su questo tour negli stadi erano emozionanti, tutte. Le persone che ci erano già state si erano emozionate, tutte. Ero al cento per cento della disponibilità e tutto poteva essere perfetto.

E invece… sfiga suprema. Nel momento stesso in cui Lorenzo ha cominciato a cantare ha iniziato anche a piovere. E quando stavo cominciando ad emozionarmi la pioggia è diventata un diluvio. Lui ha continuato a cantare, fradicio come noi, ma quando si è alzato il vento gli strumenti si sono bagnati e hanno dovuto interrompere. Un nubifragio in piena regola.



Ovviamente fuggi fuggi generale, chi a cercare riparo e chi proprio via dal concerto. Noi siamo andati via. Dopo tutto quel disastro ci sembrava improbabile che avrebbero potuto ricominciare, e comunque sia io mi ero portata qualcosa per la pioggia (a parte i 2 centimetri  d’acqua nelle scarpe) ma i miei compagni di avventura erano completamente zuppi e non potevano restare così, quindi siamo andati.

Capita. Vai ad un concerto all’aperto e metti in conto che possa piovere. Se sei sfortunato piove. Se sei molto sfortunato inizia a piovere appena il concerto è iniziato e devono interromperlo.

Quindi niente, si torna a casa. Tutto sommato l’avventura è stata anche divertente,  sono stata bene sempre,  in viaggio, alla ricerca dello stadio e del parcheggio, anche sotto la pioggia e al freddo, e poi correre via, quattro donne in macchina in mutande e reggiseno e lo chauffeur in boxer, con il riscaldamento a palla in pieno luglio, rientrare a casa a piedi nudi...

Ma quando sulla strada del ritorno abbiamo scoperto che il concerto sarebbe ripreso, alle 23.30, tutti siamo rimasti molto contrariati. Chi è rimasto sotto la pioggia ed ha aspettato con pazienza è stato premiato. Chi ha deciso di andarsene l’ha fatto in piena libertà. Ma a mio parere la decisione di riprendere andava presa molto prima, non dopo due ore.
Oggi su Twitter e Facebook ovviamente infuria la polemica. Chi è rimasto è entusiasta, chi se n’è andato si lamenta.
A me è rimasta addosso soprattutto tanta voglia di vivere l’energia di una festa.

Questa volta purtroppo, Lorenzo, sono rimasta delusa.

#lorenzoneglistadi 
#padova 
#tempesta

mercoledì 1 maggio 2013

Viaggio sola

Quanto mi piace Margherita Buy! Con la sua aria da timida insicura che è diventata il suo segno particolare ed una bellezza non giovane nè ritoccata e per questo ancora più bella. E Stefano Accorsi? Che affascinante con qualche chilo e qualche ruga in più! Altro che il belloccio dell’Ultimo bacio

Bene, a parte queste considerazioni superficiali, Viaggio Sola è un film che ho guardato per tutto il tempo con il sorriso sulle labbra, che è una sensazione molto piacevole. Niente di particolarmente impegnativo ma molto gradevole e non privo di spunti di riflessione.

Innanzitutto lo sfondo insolito e curioso. La protagonista, Irene, come mestiere fa l’ospite a sorpresa, ovvero soggiorna per qualche notte negli alberghi più lussuosi fingendosi una cliente per verificare che gli standard di qualità vengano rispettati: se le lenzuola sono pulite e profumate, se la zuppa ha la temperatura giusta, se i camerieri sono sufficientemente gentili e solerti.  Irene viaggia appunto da sola e a casa non ha una famiglia, neanche una ex famiglia; ha una sorella che invece è dotata di marito e figlie ed un migliore amico nonché ex fidanzato, Andrea. Maria Sole Tognazzi racconta una donna autonoma ed indipendente che si trova con naturalezza  a suo agio nella sua condizione, una donna che è capace di stare da sola.



Il film non ha una grande fabula a dire il vero, le uniche azioni sono l’imprevista paternità di Andrea che avrà un figlio da una ragazza con la quale è uscito solo una volta, e un momentaneo crollo di Irene che in seguito ad un episodio inaspettato scopre la sua vulnerabilità e per un attimo la paura della solitudine. La pellicola ci offre però  l’occasione di dare un’occhiata a una donna nuova  e sempre più frequente ma poco raccontata, e spesso non accettata  da chi invece tende a considerarla  triste e in fondo fallita. Infatti la sorella continua a preoccuparsi di  chi si prenderà cura di lei quando sarà vecchia (“Tu”! le risponde Irene senza alcuna esitazione), e anche Andrea  le chiede se non è triste andare al cinema da sola la sera. “Perché, al pomeriggio si e la sera no?”  risponde lei, “con il progredire del giorno aumenta il tasso di disperazione dell’individuo?”  

Irene ha un lavoro sicuramente molto affascinante che la porta a viaggiare in tutto il mondo e a vivere nel lusso, ma svolge le sue mansioni sempre nella quasi totale solitudine. Anche nel tempo libero a casa però è sempre sola, la vediamo eventualmente con la sorella o con Andrea,  nessun’altra amica con la quale confidarsi o gruppo con cui passare una serata in allegria. In realtà sappiamo che si può decidere di non formare una famiglia ed avere lo stesso tanti amici  altri affetti e una vita ricca.



C’è anche un’altra riflessione che mi è venuta in mente, e riguarda  le donne che una volta venivano definite ragazze madri (si usa ancora? O è più politicamente corretto dire famiglia monogenitoriale?). Andrea  viene preso dall’ansia all’idea di diventare padre, lui non vuole un figlio da questa donna che praticamente non conosce, ma poi si assume le sue responsabilità e cerca di fare il possibile per essere presente. Molto bello e grazie, però …  questa donna che decide di tenere il bambino deve per forza prendersi anche un uomo che neanche lei conosce e che non necessariamente la farà felice? Cioè, non è previsto che una donna possa essere come si dice ragazza madre per scelta?

Per inciso, il film l’ho visto al cinema da sola.


Viaggio sola, di Maria Sole Tognazzi, Italia 2012
Con Margherita Buy e Stefano Accorsi
Durata 85’