martedì 20 novembre 2012

Venuto al mondo


Gemma e Diego si conoscono a Sarajevo nell’anno delle Olimpiadi invernali e immediatamente si innamorano. Il loro amore è affamato e toalizzante, lasciano tutto quello che stavano facendo prima per stare assieme. Non hanno un soldo, vanno a vivere su una barca ormeggiata lungo il Tevere. Diego fa il fotografo, per amore di Gemma sacrifica la sua vena più artistica per lavori più remunerativi e meno creativi. Prendono in affitto una casa vera, cercano di avere un figlio ma Gemma ogni volta subisce degli aborti spontanei, finchè non scoprono che è sterile. Questo figlio che sembra irraggiungibile diventa un’ossessione, provano di tutto, dall’adozione all’inseminazione.
Nel frattempo nella ex Yugoslavia scoppia la guerra, e loro in qualche modo ne sono irresistibilmente attratti. Tornano a Sarajevo dove ritrovano Goiko e tutti gli altri amici conosciuti qualche anno prima, restano lì anche sotto le bombe, per aiutare, per sentirsi più utili, non sanno neanche bene loro perché. 
Dopo 16 anni dalla fine della guerra Gemma torna a Sarajevo con il figlio Pietro per l’inaugurazione di una mostra fotografica dove sono esposte anche le foto di Diego, suo padre.

Questa è la storia. La storia raccontata nel libro che qualche estate fa mi ha sconvolta di emozioni. Quando è uscito il film qualche settimana fa ovviamente ero molto curiosa di vedere se sarebbe stato all’altezza, e devo dire che lo è stato.

Il libro è stato scritto da Margareth Mazzantini, l’adattamento cinematografico  è diretto da suo marito Sergio Castellitto. Ho amato questa coppia già in Non ti muovere, e devo dire che la collaborazione tra i due anche questa volta mi ha trasmesso delle sensazioni molto forti.

La scrittura della Mazzantini è maschile, secca ma ridondante, a volte anche eccessiva nel ripetere un concetto in varie forme, sembra quasi che l’autrice si compiaccia di se stessa scrivente. E la sua Gemma la rispecchia. Nella sua ricerca di maternità di fronte agli insuccessi si ostina, si ossessiona, si ripete, si ammala, si abbruttisce. La Gemma di Sergio invece è molto più morbida. Penelope Cruz che la interpreta  è brava, intensa e bella, bella e sfacciata da giovane, bella con il trucco che la trasforma in una madre cinquantenne. Sul suo conto mi sono dovuta ricredere già ai tempi di Non ti muovere. Chissà forse l’avevo conosciuta in qualche pellicola un po’ sciocca e mi era rimasta un’impressione negativa,  invece quando sono uscita dal cinema l’altro giorno avevo gli occhi pieni di lei.
Ho adorato la scena quando lei è incinta e balla sulla barca per lui che la fotografa con un sottofondo di musica techno, e all’improvviso il sangue le cola tra le gambe, lei neanche si guarda ma sente, non ride più, lui non la fotografa più, sono fermi e si guardano, e quella musica ormai non ha più senso.
Oppure quando si appoggia al pianoforte mentre il suo primo marito sta suonando, e un dialogo fatto solo di  sguardi senza neanche una parola segna la fine del matrimonio.

Mi sono piaciuti molto anche gli altri attori. Emile Hirsch che interpreta Diego (lo abbiamo visto in Into the Wild) corrisponde abbastanza al personaggio del libro. Goiko è un uomo  eccessivo e irriverente, e tanto tanto affascinante. L’attrice turca che interpreta Aska è di una bellezza magnetica. Non mi è piaciuta invece la scelta di Pietro Castellitto nel ruolo di Pietro, davvero troppo uguale a Sergio per essere credibile, oltre al fatto che il suo personaggio di teenager romano un po’ Muccino risulta abbastanza antipatico.

In generale il film segue abbastanza fedelmente la traccia del libro, qualche episodio viene presentato come più marginale (il primo matrimonio di Gemma ad esempio nel film è solo accennato), qualche dettaglio viene omesso o modificato. Nel film Diego è americano non genovese, Giuliano – il terzo marito di Gemma – nel libro è molto più comprensivo nei confronti del passato della moglie che lei non riesce a lasciar andare.

La Mazzantini mi è un po' antipatica e Sergio Castellitto ha qualcosa di poco fine che non riesco a digerire del tutto. Eppure ho letto il  libro quasi trattenendo il fiato e senza riuscire a staccarmene, e alla fine quando tutto sembrava risolto la scoperta della verità mi ha straziata; eppure il film è riuscito a smussare gli angoli acuti della scrittura di lei ed a restituire una storia più calda.

I commenti che ho sentito da parte dei miei compagni di cinema sono stati molto eterogenei: a qualcuno è piaciuto, qualcuno non aveva letto il libro, qualcuno ha detto che il film ha rovinato il libro, qualcuno si è lamentato dello sfacciato nepotismo. Io non riesco ad essere obbiettiva perché da qualche parte questa storia mi ha colpita e affondata.

E mi è venuta voglia di visitare Sarajevo.


Venuto al mondo di Sergio Castellitto, Italia Spagna Croazia 2012
Con Penelope Cruz, Emile Hirsch, Adnan Haskovic, Saadet Aksoy, Pietro Castellitto, Luca De Filippo
Durata 127 ‘




giovedì 8 novembre 2012

Se ti abbraccio non aver paura



Ho appena finito di leggere un libro delizioso, che mi ha accompagnata con la sua freschezza per ogni sua pagina. Leggero, nonostante il tema trattato non sia affatto semplice: è la storia di un ragazzo autistico, o meglio, è il racconto di un viaggio che questo ragazzo, Andrea, intraprende con suo padre.

La storia è vera, Franco l’ha raccontata a Fulvio Ervas che a sua volta ha deciso di farne un libro. Padre e figlio hanno raggiunto la Florida dove hanno noleggiato una moto e hanno attraversato gli Stati Uniti fino ad arrivare sulla West Coast. Di lì proseguendo per il Messico, il Guatemala, Belize, e Panama hanno raggiunto la costa orientale del Brasile. Senza una meta prefissata, liberi, all’avventura. All’avventura con un figlio autistico, una decisione non facile da prendere, non sapendo se il ragazzo avrebbe reagito bene o se ci sarebbero stati dei problemi e ovviamente con tutti che esprimevano i loro dubbi e perplessità sull’opportunità dell’impresa.

Il tema trattato è molto delicato, ma anche il libro è delicato. Certo, non mi aspettavo chissà  quale capolavoro letterario o un reportage socio -culturale sui paesi visitati, e in questo senso non ho avuto sorprese. Ma ancora una volta non è questo il punto. Questo racconto mi ha conquistata con la sua freschezza, la freschezza e la limpidezza di Andrea che guarda il mondo da un’angolazione tutta sua, che cerca di essere delicato anche se non ci riesce sempre con i suoi abbracci ed i suoi baci dati all’improvviso a chiunque, conosciuti e sconosciuti, con il suo toccare la pancia per capire le persone. Mi sono immaginata Andrea come un ragazzo dallo sguardo luminoso e trasparente e mi ha conquistata.



Non mi permetto di fare considerazioni su questo tipo di problematica perché non la conosco e non vorrei offendere nessuno, ma ammetto di aver  provato quasi invidia per il mondo semplice in cui vive questo ragazzo, soprattutto se lo confronto con la nostra quotidianità spesso piena di complicazioni inutili: “I normex, come tutti quelli che vivono troppo facilmente, non sopportano la diversità […] I normali non riescono ad apprezzare certi inceppi della vita, hanno cose alte e creative a cui badare: gli acquisti a rate, una dozzina di conflitti, un paio di bombe sul Giappone, qualche dozzina di sterminii religiosi … “
Andrea e suo padre parlano poco perché Andrea parla poco, ma usano un altro linguaggio. Un linguaggio fatto di sensazioni, di sguardi , di percezioni, un linguaggio molto più profondo e senza sprechi di parole.

Certo, nel libro sono omessi i momenti particolarmente difficili che certamente ci saranno stati. Il padre ogni tanto è stanco, esasperato, Andrea comunque capisce e soffre per la sua condizione, per la sua incapacità di controllarsi. Non importa se non è stato detto tutto. Io mi sono piacevolmente commossa e ve lo consiglio, se siete nel momento giusto per leggere qualcosa di semplice che spero riuscirà ad emozionarvi  come ha fatto con me.

venerdì 2 novembre 2012

Diaz. Don't clean up this blood

E’ un po’ difficile scrivere questo post, non voglio cadere nella polemica politica né sociale. Non perché non ci sia il materiale per farlo, anzi! Ma perché su questo blog vorrei parlare di fatti cinematografici (e di libri e di radio), quindi cercherò di fare una riflessione il più possibile tecnica. Poi se qualcuno vorrà ampliare il discorso si senta libero di farlo, qui o in separata sede.
D’altra parte è proprio quando una pellicola o un libro mi colpiscono che sento il bisogno di scriverne, e questo film l’ha fatto, eccome se l’ha fatto!

Conoscevo già ovviamente i fatti di Genova, ma non avevo mai approfondito l'argomento nel dettaglio. Tra l’altro la sentenza definitiva è stata emessa recentemente quindi sui giornali se n’è parlato di nuovo per qualche giorno. In questo film ci sono le immagini di ciò che è accaduto realmente, di come si sono svolti i fatti  alla scuola Diaz e successivamente alla caserma Bolzaneto. Ecco… ogni parola che scrivo mi sembra in qualche modo una presa di posizione. Si tratta di una trasposizione oggettiva dei fatti o no? Il grado di violenza rappresentato mi ha fatto pensare più volte, strano che non sia morto nessuno! E’ quindi esagerato quello che ho visto? 
Lo stile vuole essere documentaristico ma è evidente da che parte stia il regista. D’altra parte, anche se non tutto fosse completamente vero, c’è stata talmente tanta informazione distorta e manipolata su quello che è successo che anche se i fatti raccontati fossero parziali servirebbero almeno, quanto meno, a riportare la bilancia in equilibrio.
A mio parere la condanna non è tanto nei confronti dei poliziotti, che vengono dipinti quasi come dei non-pensanti, caricati come molle e poi lasciati liberi di reagire abbandonandosi alla violenza cieca (davvero accecati colpiscono senza guardare anche il nonno che si trovava lì evidentemente per caso). La condanna è per chi a chi ha il potere e senza alcuno scrupolo o moto di coscienza tira le fila dei sottoposti burattini. Se vi interessa l’argomento vi consiglio la lettura di ACAB di Carlo Bonini che mette bene in luce il ruolo degli scacchisti e quello delle pedine.

Dicevo comunque che il film ha uno stile marcatamente documentaristico. Gli unici due volti noti sono quelli di Elio Germano, un giornalista che resta intrappolato e viene picchiato nella scuola e Claudio Santamaria, l’unico poliziotto che sembra avere un minimo di coscienza. Ma non emergono, passano quasi inosservati, i protagonisti sono tutti gli sconosciuti partecipanti alle manifestazioni.
La mano del regista si fa sentire anche in fase di montaggio riproponendo la stessa scena in momenti diversi e da diversi punti di vista e svelando così molteplici significati.

Per il resto io sono rimasta ammutolita, anche se normalmente non è il sangue ad impressionarmi. Credo  che la differenza tra un film molto violento di cui poi magari scopro dai titoli di coda che è ispirato a una storia vera e Diaz è il mio approccio che è stato esattamente l’opposto: volevo vedere cos’era successo veramente, e quello che ho visto è stato decisamente molto più sconvolgente di quanto mi aspettassi.
Il pensiero che mi ha accompagnata durante tutta la visione e dopo è stato: ma sono questi gli uomini che dovrebbero proteggerci? E dietro a loro, sono questi i governanti che dovrebbero guidarci? 

Diaz, di Daniele Vicari
Italia, Francia, Romania 2012
Durata 127'