domenica 28 aprile 2013

Io e Te



“La mia mente ha preso il volo… un pensiero uno solo … Io cammino mentre dorme la città…”
La versione italiana di Space Oddity cantata in un italiano stentato dallo stesso David Bowie è di una bellezza struggente. Continuava a venirmi in mente dopo aver visto Io e Te di Bernardo Bertolucci, quando Olivia e il fratellastro Lorenzo la ballano abbracciati alla fine della settimana trascorsa nascosti in cantina.

Ecco c’era qualcosa in questo film che avevo guardato troppo distrattamente la prima volta, che però mi aveva colpita, e che quindi ho voluto riguardare per capire meglio, forse sollecitata dalla voce di David Bowie che continuava a tornarmi in mente. Innanzitutto per restare in ambito musicale le canzoni che Lorenzo ascolta in cuffia sono tutte bellissime e non casuali, da Boys don’t Cry dei Cure, a Sing for Absolution dei Muse,  a The Power of Equality dei RHCP. E poi c'è appunto Ragazzo solo ragazza sola cantata da David Bowie.


Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Nicolò Ammaniti che io non ho letto. Racconta di Lorenzo, un adolescente difficile, o forse solo lontano dagli usi e costumi dei suoi coetanei, o come dice lo psichiatra da cui lo manda la madre “talmente narciso da non aver bisogno degli altri”. Per risparmiarsi la tortura della settimana bianca con i compagni Lorenzo si nasconde in cantina dove si organizza per trascorrere sette giorni libero dalle pressioni, in compagnia solo di se stesso, la sua musica, i suoi libri ed un terrario. Sfortunatamente all’improvviso irrompe la sua sorellastra siciliana eroinomane, che non vedeva da anni, a sconvolgere i suoi piani.
A questo punto la trama non ci riserva grosse sorprese tranne le sequenze in cui i due entrano di nascosto in casa di notte per recuperare del cibo con il rischio di venire scoperti, o quando Lorenzo esce per procurarsi dei sonniferi. Per il resto i due restano lì sotto, lei tenta faticosamente di disintossicarsi, lui la osserva incuriosito, poi si abitua, mangiano, litigano, dormono, condividono lo spazio.  I due protagonisti, impersonati da Tea Falco e Iacopo Olmo Antinori sono alla loro prima esperienza sul set, molto giovani e di certo non attori consumati.

Eppure sono magnetici, e questo è quello che mi è rimasto impresso. Lui è un brutto anatroccolo, con il viso pieno di brufoli, quasi inquietante. Lei è esagerata, con un accento siciliano quasi caricaturale, una cascata di riccioli biondi, un vistoso cappotto di pelliccia nera da dark lady (anzi da dark girl) e anche lei un viso non bellissimo, quasi maschile. Ma resta impressa. Non ho usato un termine a caso prima quando ho scritto che “irrompe” nella storia. Irrompe come un ciclone e cattura l’attenzione. D’altra parte per tre quarti del film i due sono gli unici personaggi e sono anche chiusi in una cantina. Eppure non ci si distrae. 



Credo che il magnetismo che emanano sia merito del  regista che li ha saputi condurre e valorizzare. Anzi se vi capiterà di noleggiarlo vi suggerisco di guardare anche il making of contenuto nel dvd che segue Bertolucci nelle varie fasi di realizzazione

Ho l’impressione che la pellicola non abbia raccolto o non raccoglierà consensi unanimi, credo che sia uno di quei film che possono piacere molto o molto poco. Di certo però non lascia indifferente, e se è così ha colpito nel segno.



Io e Te, Italia 2012
Di Bernardo Bertolucci, con Tea Falco, Iacopo Olmo Antinori, Sonia Bergamasco
Durata 97’

martedì 16 aprile 2013

Un giorno devi andare



Questo è un piccolo gioiello intenso e coinvolgente. Non è un film che mi ha convinta in ogni sua parte ma è come un fiume lento che porta con sè pensieri e riflessioni, e questa è la sensazione che mi piace provare quando esco dal cinema.

Il regista, Giorgio Diritti, è autore anche de L’uomo che verrà, che ha avuto un buon successo di pubblico, e de Il vento fa il suo giro, un film potente e intimo che io personalmente ho preferito. Lo stesso autore, che ho visto recentemente in un’intervista, mi ha colpita per la riservatezza e la pacatezza con cui ha parlato di questa storia.

E la storia è quella di Augusta, che dopo aver perso un figlio prima ancora di averlo messo al mondo e dopo essere stata abbandonata dal marito perché non avrebbe più potuto diventare madre decide di partire per l’Amazzonia alla ricerca di se stessa e di risposte. Parte al seguito di una suora che viaggia su una barca lungo il Rio delle Amazzoni per insegnare il cattolicesimo alle varie comunità indigene che vivono lungo il fiume. Ma i metodi della suora e degli altri predicatori non convincono la giovane donna, che lascia la barca e la ricerca spirituale e va a vivere in una favela sulle palafitte di Manaus, per cercare risposte più concrete. Qui ritrova un po’ di serenità e il sorriso, cercando di contribuire all’organizzazione del lavoro della comunità e ricevendo in cambio affetto e calore umano. Ma ad un certo punto un evento traumatico la spinge di nuovo a partire e a viaggiare ancora  lungo il Rio fino ad approdare su una spiaggia deserta dove resta da sola ad indagare ancora il suo dolore ed il senso della sua vita.



Parallelamente ci viene narrata anche la storia della madre che è rimasta in Italia, triste e sola dopo la partenza della figlia e la recente morte del marito, a prendersi  cura della nonna scontrosa e tenace, e che ha come unico contatto umano quello con alcune monache del vicino convento da cui è partita la suora a cui si è inizialmente unita Augusta. Un sorriso comparirà finalmente sul suo volto triste quando arriverà dal Brasile una donna della favela amica della figlia, anche lei in fuga da un dolore.

E’ un film fatto di poche parole e di molti silenzi, di sorrisi, di primi piani di occhi neri e volti intensi, di povertà di mezzi e ricchezza di sentimenti, e di un paesaggio imponente e silenzioso, fatto di un fiume immenso che respira lentamente, di alberi enormi e maestosi, di una natura viva accanto a città povere che questa natura la sporcano e la offendono. E’ un film che dove non usa le parole parla direttamente al cuore attraverso gli sguardi, i gesti ed i lunghi silenzi, e che quando parla lo fa principalmente nel portoghese musicale dei brasiliani. 



Jasmine Trinca che interpreta Augusta non è più la ragazzina che aveva iniziato la sua carriera cinematografica quasi per caso. E’ cresciuta, ha ormai i lineamenti  di una donna e ha dato un fondamento al suo talento.
Uno dei momenti più significativi di questo film è secondo me la preghiera che l’amica brasiliana di Augusta recita per un’anziana donna appena morta, ringraziando i suoi occhi per quello che hanno visto, le sue gambe per dove l’hanno portata, il suo cuore per quanto ha amato; è la preghiera semplice di una donna povera di mezzi e di cultura, che però ha un significato più vero e diretto delle preghiere imposte agli indigeni che, come dice Augusta alla suora, non capiscono le cose che i missionari vogliono far fare loro.

Avrei anche qualche dubbio e perplessità tecnica su questo film, ma alla fine è stato un respiro profondo e una gioia per gli occhi quindi se avrete un po’ di pazienza per ascoltare anche i lunghi silenzi ve lo consiglio.



Un giorno devi andare, Italia, Francia 2013,
di Giorgio Diritti, con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engelberth
Durata 110’


lunedì 8 aprile 2013

Effetto straniante di una serata al teatro sloveno

Oggi un post da mettere nella cartella “altro” del mio blog. Sono  stata a vedere una rappresentazione al teatro sloveno di Trieste. Un vero spettacolo in sloveno con sovratitoli in italiano.

Ero già stata quest’anno allo SLOVENSKO STALNO GLEDALIŠČE di Trieste ma per assistere concerti o rappresentazioni in italiano. Questa volta invece ho accettato il suggerimento di un’amica a provare questa nuova esperienza. E così sono andata a fare questo esperimento, senza essermi neanche informata della trama o degli autori, ma con la massima curiosità! E’ d’obbligo precisare che non parlo lo sloveno, se non qualche parola (credo non più di 50 vocaboli in tutto) faticosamente appresa durante un corso intensivo di qualche anno fa.

Dunque rappresentazione in lingua originale con sovratitoli. L’effetto dei sovratitoli è obbiettivamente straniante. Mi capita di guardare film in qualche lingua originale sconosciuta o poco conosciuta,  ma in questo caso i sottotitoli compaiono direttamente sullo schermo, e sono sull’inquadratura che il regista ci costringe a guardare; a teatro invece vediamo tutta la scena e dobbiamo scegliere noi qual è in ogni momento il personaggio o l’azione da seguire. Di conseguenza  il fatto di dover continuamente alzare lo sguardo per leggere la traduzione implica uno sforzo aggiuntivo. Per i primi minuti il movimento degli occhi è abbastanza meccanico, poi, come accade al cinema con i film in lingua straniera, si comincia a fare meno fatica. Non voglio dire che quasi non leggevo più la traduzione perché sarebbe una clamorosa bugia, ma vuoi che ho cominciato a riconoscere alcuni vocaboli, vuoi che non il cento per cento del testo veniva riproposto sullo schermo, vuoi che  anche se qualche frase andava persa il contesto compensava alla comprensione della trama… sì, posso dire orgogliosamente che sono riuscita a sganciarmi dalla traduzione.
Certo, era anche abbastanza straniante ridere delle battute perché le avevo già lette, mentre  il pubblico di madrelingua reagiva con qualche secondo di scarto dopo averle sentite pronunciare dall’attore. Oppure non trovarle particolarmente divertenti e un attimo dopo sentire il signore dietro che si sganasciava…

Ora non mi sento in grado di fare una recensione dello spettacolo, un po’ perché non sono così esperta di teatro e un po’ perché non avendo capito tutto non ho gli elementi per farlo. Si è trattato comunque della commedia Burundanga  dell’autore catalano Jordi Galceran. Una storia molto leggera e divertente basata su uno dei classici meccanismi della commedia, il filtro della verità – chiamato appunto Burundanga - somministrato ad uno dei protagonisti che dà inizio a tutta una serie di contrattempi ed incomprensioni. Ambientazione decisamente pop anche per i colori e la scenografia,  ma volendo anche con degli interessanti spunti di riflessione sulla storia contemporanea. Gli attori mi sono sembrati tutti giovani e promettenti, accompagnati da un personaggio più anziano di spessore ed esperienza decisamente maggiori.

Last but not least, l’opuscolo informativo dedicato allo spettacolo era davvero molto ricco ed esauriente, con interviste agli attori, al regista, cenni storici al periodo rappresentato e con un bell’intervento sull’uso delle mandragole nella storia del teatro.

Insomma, operazione riuscita ed esperienza da ripetere! Aggiungo il del teatro sloveno alla lista di realtà interessanti da tenere d’occhio in città.